È l’alga dunialella ad avvertire i salinieri che è venuto il tempo del raccolto. Solo lei sopravvive alla concentrazione raggiunta nelle vasche. In settembre il suo pigmento le invade rendendo le saline un vasto specchio riempito dai colori del tramonto. Intorno incombe l’autunno delle città cresciute sulla costa, sull’antichissima maestranza dei contadini del mare. Per millenni i bastimenti hanno portato nelle stive “l’oro bianco” nato dal sole e dal vento che battono sull’acqua imprigionata. Una stagione comune, fino a novembre, un unico semplice processo con infinite piccole sfumature nelle prassi e nelle lingue, e il passaggio storico dalla raccolta tradizionale a quella industriale. Tante variazioni di una comune storia mediterranea e italiana.
Oggi la salina di Cervia si estende per 827 ettari ed è composta da oltre 50 bacini, circondati da un canale di sedici chilometri che permette all’acqua di entrare ed uscire dal sistema. Le tecniche di produzione si sono evolute nel corso dei secoli, passando dalla semplice raccolta del sale precipitato al sistema artigianale a raccolta multipla, sostituito nel 1959 dal sistema industriale a raccolta unica. Ancora oggi ricordiamo tuttavia gli antichi nomi che pronunciati dai salinieri componevano la grammatica del raccolto. Le vasche di evaporazione si chiamavano morari. Da qui l’acqua confluiva verso bacini più piccoli, dove la salinità aumentava rapidamente. Attraverso il canale che ancora circonda la salina, l’acqua passava attraverso vasche di misura progressivamente minore, fino ai cavedini, lunghi dieci metri e larghi cinque. Il sale contenuto nei cavedini veniva ammassato con raspi di legno chiamati gavari. Scolato dalle “acque madri” veniva poi trasportato mediante carrioli in un’aia chiamata tomba, che i salinieri ricoprivano con le stuoie per evitare i danni delle prime piogge.
Scendendo lungo la costa adriatica, superando l’imbocco dell’antica via Salaria che univa Porto d’Ascoli a Roma, troviamo in Puglia le saline Margherita di Savoia, già note in epoca romana. Le alte maree invadevano il bacino dell’antico lago Salpi, ed evaporando abbandonavano naturalmente sul fondo i cristalli di sale. La vastità delle saline pugliesi (le più grandi d’Europa), suggerì in epoca moderna il passaggio a un processo di raccolta meccanizzato. Macchine raccoglitrici semoventi lunghe fino a 200 metri si distendevano per tutta la lunghezza del bacino. Queste lo percorrevano perpendicolarmente grazie a due tubi-binario, al centro dei quali un meccanismo innescava il moto rotatorio di un nastro che ricevuto il sale da una ruspa trasportava lo consegnava a una delle due norie (sorta di mulini) collocate alle estremità della raccoglitrice.
Dalle norie, che ospitavano una cabina di manovra, un altro nastro verticale trasportava il sale verso l’apertura. Questa convogliava il sale all’interno di piccoli carrelli ferroviari, che depositavano il prodotto in una buca di scarico. Da qui altri nastri conducevano il sale su un carroponte, dalla cima del quale, cadendo, l’oro bianco creava una montagna alta venti metri e lunga alcune centinaia. Oggi il mercato ha imposto alla raccolta di passare da un ritmo stagionale a uno pluriennale. Le macchine raccoglitrici sono diminuite notevolmente nelle dimensioni. Inferiore è anche il numero degli addetti. L’ultima innovazione nel processo di raccolta è stata chiamata a travoni di sale, resa necessaria dal passaggio continuo dei camion sulla incrostazione salina, che finiva per impedire il trasporto del sale dalla zona dei bacini salanti. I “travoni” sono piste di sale create da escavatori, e permettono un passaggio più agevole e meno dannoso verso le aie di ammassamento. Oggi la produzione media annua per la saline Margherita di Savoia è di 5.500.000 tonnellate.
Anche le saline Conti Vecchi, nate negli anni ’30 nello stagno di Molentargius, golfo di Cagliari, hanno assistito al passaggio dalla raccolta multipla artigianale a quella industriale. Un lavoro durissimo, il primo, portato avanti con pala e piccone da 1500 operai, molti dei quali stagionali. Dentro le vasche salanti si procedeva alle operazioni di atellaggio o atellatura, la raccolta del sale precipitato in piccoli accumuli che venivano poi trasportati con le carriole verso la grande aia. Pala e piccone sono state in seguito sostituite dalle “macchine raccoglitrici”, inventate dai salinieri locali. Queste erano capaci di attraversare come leggeri carrarmati le vasche salanti, raccogliendo e sputando fuori il sale, che si accumulava sulle banchine. Oggi l’atellaggio viene eseguito con ruspe e benne da non più di quaranta operai. Un lavoro di grande precisione: la pavimentazione della vasca salante è composta di argilla impermeabile. Come in agricoltura, bisogna assolutamente evitare di danneggiare il suolo. La ruspa deve quindi “pennellare” il fondo delle vasche quando intacca il sale precipitato e raschia per portarlo via. Un danno importante alla pavimentazione imporrebbe di lasciare il campo “a maggese”. Il sale raccolto dalle ruspe viene caricato su camion che lo rilasciano nella grande aia, dove un nastro lo trasporta verso il setaccio. Ripulito dall’argilla viene preso in consegna dal derrick, un braccio meccanico che lo trasporta in cima alla montagna, culla del sale nuovo.
Il sistema industriale ha spontaneamente teso a uniformare pratiche e linguaggi. Ma fino agli anni ’80 nelle saline di Trapani gli operai della raccolta venivano distinti in tre gruppi, quelli impegnati nella rumpitina, quelli specializzati nell’arrunzatina, e la squadra chiamata venna. Il primo gruppo si occupava di scrostare il sale precipitato sul fondo. La crosta frantumata veniva asciugata dall'acqua e, per agevolare lo svuotamento della vasca salante, "tagliata" e fatta scorrere nei canali di scolo, che grazie alla pendenza delle vasche salanti convergevano verso un punto di ammasso chiamato spiatura. Nel punto di raccolta a forma di croce la crosta di sale veniva divisa in piccole porzioni quadrate e successivamente raggruppata in piccoli cumuli. Una volta accatastato in piccoli mucchi, veniva il momento della venna. Questa, con l'ausilio di un particolare tipo di vanghe e carriole, raccoglieva i cumuli e li portava verso il nastro trasportatore a bordo vasca, che li ammassava sull’aia. Il lavoro veniva commissionato a cottimo, e aveva come metro di riferimento essenziale la salma, unità di misura specifica del sale corrispondente a 24 ceste, circa 500 chili. Il conteggio veniva eseguito con l’aiuto di un piccolo quadrato di legno detto tagghia, dove erano stati effettuati dieci fori per ogni lato. Qui si annotavano da un lato le unità e da un lato le decine. Alla presenza di tutti si procedeva al computo, e per evitare attriti i diversi gruppi di lavoro, la somma diventava una cantilena, che ancora oggi si conosce come “canto dei salinai”.
Il progetto MedArtSal, di cui MEDSEA e partner, è finanziato dal Progetto Europeo ENI CBC MED 2014-2020, con un budget totale di 3,2 milioni di euro e un contributo dell’Unione Europea di 2,9 milioni. Avrà una durata di 36 mesi.
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