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Viaggio fra le strade di Cagliari, fra gli invisibili del covid e la meglio gioventù

“Abbiamo aperto ai primi di aprile. La distribuzione sarebbe dovuta durare solo per il periodo di quarantena. Poi è venuto maggio. Ora stiamo immaginando di continuare anche a giugno. Poi chissà”, dice Alessandro Cao, mentre la squadra dei volontari da lui coordinata gira insieme al meccanismo perfetto del centro di distribuzione viveri della fiera di Cagliari, gestito dalla Caritas e nato per sostenere tutti coloro che per sfuggire alla pandemia sono affondati nell’indigenza.

Al telefono Davide raccoglie le chiamate, ascolta racconti di frustrazione, rabbia e vergogna. Registra la richiesta d’aiuto, trasformata in quantità di cibo da un sistema automatico che tiene conto dei componenti del nucleo familiare, dato registrato nelle schede di iscrizione. Sono quattro in media, oltre 3000 le famiglie che si sono aggiunte allo storico servizio di distribuzione di via Po. La fragilità di una città è tutta in dodicimila persone appese al magro guadagno quotidiano, sorprese nel vuoto crudele, fra le sponde del lavoro regolare e quelle dell’assistenzialismo. Diversi coloro che non hanno ancora potuto beneficiare delle misure di supporto economico elaborate dal governo, incastrate nel labirinto della burocrazia, o nell’imbuto delle banche. La lista stampata degli alimenti ordinari, acquistati dalla Caritas, è accompagnata da scarabocchi di penna che aggiungono i prodotti di giornata: i pomodori donati dagli agricoltori, gli omogenizzati e i pannolini delle farmacie, le colombe pasquali dei supermercati. Presso alcuni è possibile acquistare beni di prima necessità che tre volte a settimana vengono raccolti dalla logistica del centro. Sono i “carrelli sospesi” presenti in tutti gli Hard Dis e gli Iper Pan di Cagliari.

Lista alla mano, i volontari girano per il centro con guanti e mascherine, componendo la spesa nei carrelli. La bolla viene ceduta a Francesco, che dietro i banchi, insieme agli altri volontari del servizio civile, si occupa di pratiche e archiviazioni. La nuova mole di dati diventa geografia sociale e statistica. Arriva una domanda da via Seruci. Impossibile soddisfarla. La famiglia ha ricevuto la spesa solo cinque giorni prima. Il ciclo, calcolato sulla sostenibilità per il più alto numero possibile di beneficiari, prevede una consegna ogni 15 giorni. I carrelli escono al sole nello spiazzo, prendono la forma di buste bianche caricate sulle macchine dei corrieri. “Ci ringraziano, piangono” racconta Sergio, seduto in attesa del prossimo viaggio. I percorsi nella città svuotata dal virus si ripetono: San Michele, Is Mirrionis, Sant’Elia, Santa Teresa a Pirri, la galassia della comunità filippina. Trecento chiamate al giorno, le periferie appese al filo. Sono oltre cento i volontari impiegati a rotazione nell’operoso formicaio del centro. Studenti ma non solo: i ragazzi dei supermercati Gieffe, dell’Old Square e di Good, i giovanissimi che hanno perso il lavoro e hanno scelto gli altri. La meglio gioventù.

Il sole di maggio batte sul timido traffico della città, si arrampica in ombra sulle scale della chiesa del Santo Sepolcro, dove siede paziente Dragan: “La quarantena è stata un disastro. Trasporto ferro, in tempi normali riesco a tirar su 50/60 euro al giorno. Ho quattro figli, il più grande ha sei anni. Viviamo in un piccolo appartamento, è davvero difficile. Abbiamo bisogno di tutto il supporto possibile. Il comune ci aiuta con l’affitto, poi c’è la Croce Rossa. Spero anche il centro possa darmi una mano. I miei genitori sono fuggiti dalla guerra in Bosnia. Io sono nato qui, 29 anni fa”. Due ragazzi bengalesi lo precedono, sono seduti distanti, a un metro dall’uscio del Centro di ascolto per stranieri della Caritas. Un vecchio banco di scuola li separa dall’ombra del piccolo ufficio e dai volti di Laura e suor Verediana. Raccontano la loro storia, diversissima da quella di Dragan, assolutamente identica.

“Non sono spariti. Tutti i migranti che popolano le nostre strade sono chiusi in abitazioni anguste e sovraffollate. Spesso non riescono a fare pasti regolari. Chi chiede monete ai semafori, gli ambulanti, i lavoratori a giornata: una bomba sociale che deflagrerà fra qualche mese” spiega al telefono Daniele Melis, responsabile del centro. Viene il turno di Dragan e Marta disinfetta tutte le sedie, riordina la distanza. Il centro “Kepos” aiuta i migranti a superare gli ostacoli che li dividono dalla vita elementare: cibo, lavoro, una casa, la lingua italiana. In tempi normali i volontari ascoltano fino a venti persone al giorno. Durante la quarantena si è operato soprattutto per telefono. Ora, fra mille precauzioni, il numero è ridotto a cinque. “In molti hanno perso il lavoro e la casa. Sono terrorizzati. Non parlano la lingua, capire è complicato anche per noi in questo periodo. Molti li vediamo in mensa, la sera”, spiega Laura, studentessa universitaria nuorese impegnata anche nel refettorio di viale Fra Ignazio.

Hanno rallentato, senza mai arrestarsi, anche i servizi sanitari della Caritas. Gli storici ambulatori sono stati chiusi all’inizio del 2020 per essere accorpati nelle nuove strutture ospitate da villa Asquer (presto l’inaugurazione), dove riprenderanno a lavorare 60 fra medici, infermieri e amministrativi, tutti volontari. A loro andrà la partita di mascherine che la Fondazione MEDSEA ha deciso di donare alla Caritas. A coordinare la squadra sanitaria il dottor Giuseppe Frau, direttore del servizio ADI di Cagliari. “Con il trasferimento non abbiamo potuto operare a regime, ma abbiamo continuato a seguire i nostri pazienti al telefono. Senza tetto, stranieri, cittadini impossibilitati ad accedere alle cure specialistiche. Abbiamo avuto cura di loro preservandoli là dove abbiamo intuito un possibile contagio, li abbiamo accompagnati in ambulanza durante il trasferimento in ospedale, quando anche la dialisi poteva risultare fatale. Le nostre 2000 visite all’anno aumenteranno, temo”.

Nella vita di un tempo, quella che tornerà con pochi insegnamenti dopo il naufragio virale, i poveri diretti alla mensa Caritas sfilano anonimi fra gli studenti di giurisprudenza, economia e scienze politiche. Percorrono lo splendido declivio di viale Fra Ignazio, incastonato fra l’orto botanico, l’anfiteatro romano e la città che discende fino allo spazio infinito del mare, un angolo di quel deserto blu dove tutto affonda o tutto è salvato. La leggerezza non regala parola ai portatori di abiti logori o smaccati, ai volti mal rasati, ai molti connotati della miseria. Sospetto e discrezione sono reciproci e asimmetrici, trasversali a geografie e religioni. La brutalità del silenzio è diluita dall’abitudine, dal cerchio indefesso dei giorni.

La mensa ha appena aperto e la fila ordinata si arrampica fino al secondo piano dello stabile, dove Massimo verifica su ogni fronte la temperatura prima dell’ingresso. È ancora silenzio sui piatti miscellanei e abbondanti, consumati nella quiete metodica, ordinata. Domani sull’impiantito appariranno frecce e segnali, la gestione del movimento profilattico. Luisa si getta sui tavoli sparecchiati con panno e disinfettante. Un altro commensale può entrare. “Appartengo a un gruppo di studenti Erasmus. L’associazione ha proposto loro di operare qui, visto che sono bloccati e in Sardegna e lo studio va a rilento. Fra l’università e gli altri impegni ho una vita molto impegnata, ma adesso…è un progetto nobile e interessante, così ho deciso di prendervi parte”, spiega Luisa. La nuova esperienza scopre i remoti anfratti della disperazione: “Inizialmente molti fra coloro che frequentano la mensa non badavano tanto alle norme di sicurezza. Sono abituati alla vita di strada. Ora invece fanno più attenzione”. Che differenza esiste, per un invisibile, fra l’invisibile virus e la corporeità schiacciante di una notte d’inverno, per strada?

Eleonora si occupa di impiattare. Appena emerge il viso, coperto dalla mascherina, i grandi occhiali e la cuffia monouso. Studia ingegneria biomedica a Torino. Qui per una visita ai parenti (il padre la affianca nel servizio alla mensa), è rimasta confinata a Cagliari dalla pandemia. “Sono sempre stata interessata al volontariato. Quando ho capito che sarebbe stata lunga ho chiesto in giro, e sono approdata qui. Aspettiamo la chiamata di chi organizza i turni. È bello aiutare gli altri. E poi esci dal tuo mondo, capisci che non tutti vivono come vivi tu”.

Dietro il bancone delle pietanze il primo della fila, l’addetto al pane, è don Marco Lai, direttore della Caritas di Cagliari. “Non potendo celebrare trascorro qui tutte le sere, e qui ho assistito al trionfo della solidarietà”. Tantissimi, a partire dai giovani, hanno sostituito i volontari storici, spesso in là con l’età e gravati da qualche patologia di troppo. È aumentato il numero dei pasti in mensa, così quello di chi chiede albergo la notte. Questi ultimi da 75 sono diventati 150. Non è mutata la proporzione che descrive le attività della Caritas nel sud Italia. I beneficiari restano per il 75/80% stranieri. A Cagliari il contenimento emergenziale è rappresentato dal centro di distribuzione della fiera. La durata del servizio straordinario dipenderà solo, come in tempi normale d’altra parte, dalla tempestività e la coerenza con cui verranno implementate le misure di assistenza elaborate dal governo. “L’obbligo delle distanze ci ha permesso di recuperare gli sguardi, le domande, l’attenzione alle relazioni, all’altro. La crisi sanitaria, e quella economica che verrà, potrebbero essere un’occasione per fare un piccolo salto, e muoversi insieme verso una società che abbia al centro il bene comune”, afferma don Marco.

Fuori l’imbrunire si addensa piano su persone e cose. Due volontari si occupano di distribuire i sacchetti con le cene da asporto per i musulmani. Ahmad aspetta di rompere il digiuno su un muretto poco distante. Alle sue spalle Cagliari è distesa nei pastelli sfocati delle case. “Prima dell’emergenza lavoravo nello stagno, con le cozze. Ora è tutto finito. Speriamo che tutto questo finisce presto, speriamo mi chiamano presto di nuovo a lavoro. Dove dormo? Per strada. Ho chiesto qui, ma è tutto pieno. Devo aspettare tre giorni hanno detto”. Tre giorni sono trascorsi. Siamo certi che Ahmad adesso ha un luogo dove trascorrere le lunghe ore del buio.

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