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COP 27 - Esiti e prospettive strategiche per un sogno condiviso

COP 27 – Esiti e prospettive strategiche 
Enrico Deplano 
 
Premessa 
Il 20 novembre scorso si chiudeva il tavolo negoziale della Conferenza delle parti tenutasi a Sharm El Sheikh. 
A due mesi di distanza abbiamo una distanza sufficiente ad evitare l’ottica deformante delle polemiche a caldo. A fronte di una conclamata necessità di scongiurare catastrofi dovute alla pressione antropica sugli equilibri ecosistemici a livello planetario, gli esiti delle COP sono stati spesso denunciati come inadeguati. In ogni tornata di questo organismo ci sono passi avanti ma anche provvedimenti importanti che vengono rimandati o elusi. Questo giustifica la percezione dei risultati di ogni COP come parzialmente fallimentari. Un atteggiamento opposto consiste nel valorizzare al massimo i risultati positivi comunque raggiunti e costruire a partire da essi. 

Le alte temperature degli ultimi anni, insieme agli eventi meteorologici estremi, hanno iniziato a far recepire anche alle persone comuni la realtà effettiva di una modificazione del clima, dopo tre decenni in cui si è voluto credere a chi lo negava. Tuttavia, ancora non tutti sanno cosa sia la COP. 
A fronte della necessità di coinvolgere anche chi non sia addetto ai lavori, sembra opportuno non dare per scontata presso ogni pubblico la conoscenza delle agende internazionali. In questo senso, oltre che per meglio inquadrare gli esiti dell’ultima COP, può essere utile richiamare il suo contesto, a partire dalla posta in gioco e dalla storia della questione. 

Posta in gioco 
A lungo il fatto che sussista un cambiamento climatico a livello planetario è stato oggetto di dibattito. Sebbene esistano ancora, al riguardo, settori definibili come negazionisti, la nozione di climate change si è imposta all’attenzione. Questo grazie alla mole di documentazione scientifica che offre dati certi e inoppugnabili. 
Le sfide sono numerose e interconnesse: l'innalzamento del livello degli oceani e dei mari, gli eventi meteorologici estremi, estinzioni di massa. Lo scenario di devastazione e di povertà che l’umanità dovrebbe affrontare non è stato sufficientemente compreso, ma si tratta di proiezioni attendibili e concrete. 
La distruzione di interi ecosistemi, insieme ai danni all’infrastruttura portuale, in un pianeta in cui il fabbisogno alimentare è garantito da scambi globali, comporterebbe il ritorno su larghissima scala di livelli di penuria alimentare. Con le conseguenze immaginabili: sconvolgimenti umanitari tali da innervare, a causa di migrazioni mai viste prima, crisi geopolitiche di portata storica epocale. 
E’ quello che si vuole evitare ed esistono tecnologie e modelli economici in grado di scongiurare quel genere di futuro, ma la finestra temporale entro cui agire appare limitata. 

Storia, senso e risultati delle COP UN 
Nell’ultima decade del XX secolo, dopo quasi 20 anni di allarmi della comunità scientifica internazionale, le evidenze sul cambiamento climatico divennero sempre meno eludibili. A seguito del “Summit per la Terra” tenuto nel 1992 a Rio de Janeiro, Le Nazioni Unite promossero nel 1995 il primo trattato internazionale sull’ambiente. Era l’Accordo di Rio. L’acronimo UNFCCC, che lo indica, sta per United Nations Framework Convention on Climate Change. 
Sulla base di tale Convenzione quadro, da allora si riunisce regolarmente la Conference of the Parties, in sigla COP. Sono 197 le nazioni associate nella Conferenza delle parti, le cui riunioni si tengono con una cadenza annuale. 

La prima COP, tenutasi nel 1995 a Berlino, segna la nascita di due strumenti base: l’SBSTA che sintetizza gli elementi scientifici per i decisori politici, e l’SBI, che dovrebbe controllare che le parti siano adempienti rispetto agli impegni sottoscritti. 
Il primo vero e proprio accordo sul clima si ha nel 1997 con la COP 3 tenutasi a Kyoto, quando si firma un protocollo per ridurre le emissioni di gas climalteranti. A conferma delle difficoltà incontrate nel percorso, Il Protocollo di Kyoto fu ratificato solo nel 2005, perchè il concetto di cambiamento climatico non era unanimemente accettato. 
Nel 2007 si ottiene un altro risultato importante alla COP 15, tenuta a Copenaghen, in cui si propone di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto una soglia massima di 2°C. 
Le COP tenute a Bali, Poznan, Copenhagen, Cancun, Doha, Varsavia, Lima, vedono creare meccanismi e parametri di valutazione comuni. 
Nel 2015 si ha una seconda fondamentale svolta, alla COP 21 tenutasi a Parigi. Il Paris Agreement rappresenta un accordo globale sul clima con un obbiettivo prestabilito: le parti contraenti si impegnavano ad effettuare una progressiva riduzione delle emissioni di gas serra climalteranti. Scopo comune dichiarato era giungere ad azzerarle entro il 2050. 

Le successive COP di Marrakech, Bonn, Katowice, Madrid, confermano l’accordo di Parigi, ma con pochi passi avanti. In pratica l’accordo di Parigi resta disatteso. 
Nel 2021 la COP26 si tiene a Glasgow e vi si sottoscrive il Glasgow Climate Pact, con la significativa assenza di Russia, Cina e India. I firmatari si sono impegnati a determinare impegni concreti sulle emissioni, ma un’implementazione del patto è stata rimandata. 
Infine si giunge, nel 2022, alla COP 27 tenutasi a Sharm El Sheik. 

Esiti concreti della COP 27 
Un risultato importante cui si è pervenuti con la COP 26 è l’istituzione di un fondo di compensazione per perdite e danni derivati da eventi estremi, siccità, innalzamento del livello marino, tutti fenomeni causati dal cambiamento climatico. Il fondo è dedicato a Paesi considerati particolarmente vulnerabili alle crisi ambientali o impreparati finanziariamente a reagirvi.  
Si può considerarlo un risultato di primaria importanza, dato che costituiva l’oggetto delle richieste dei Paesi meno industrializzati, che non sono responsabili delle emissioni ma ne pagano le maggiori conseguenze. Un aspetto non trascurabile è l’implicita ammissione di una responsabilità morale da parte dei paesi più industrializzati, cui può ancorarsi una richiesta di risarcimenti finanziari. 
La COP27 ha ribadito l’obiettivo stabilito a Glasgow di non superare 1,5 °C di aumento della temperatura planetaria. Tuttavia resta motivo di delusione il fatto che ancora non si siano stabilite delle linee guida impegnative. Inoltre l’abbandono dei combustibili fossili viene sempre procrastinato. Non si prevede infatti una riduzione dei consumi di petrolio e gas. E l’utilizzo del carbone, la fonte fossile più inquinante, non viene sospeso ma solo limitato. 

Un segnale di cambiamento arriva però da 80 Paesi, in testa stati europei e India, che chiedono una più efficace spinta alla transizione verso le fonti rinnovabili. 
Da un lato il successo della costituzione del Loss and damage fund. Dall’altro l’assenza di tagli incisivi rispetto alle emissioni di gas climalteranti. Il bilancio dell’ultima COP non può dirsi negativo ma nemmeno del tutto soddisfacente: molti nodi restano irrisolti e rimandati alla prossima Conferenza delle parti. 
Urge impegnarsi, nella consapevolezza che il tempo trascorre erodendo molte possibilità. La decarbonizzazione potrebbe passare anche attraverso esperienze pionieristiche su base volontaria. Occorre quindi andare oltre il livello delle delegazioni degli stati e interessare e motivare maggiormente il management aziendale, come potenziale volano strategico di propulsione. 

COP e geopolitica 
L’ultima Conferenza delle parti si è tenuta sullo sfondo di una crisi internazionale di eccezionale gravità. 
E’ ben noto che l’intero sistema energetico globale ha subito i contraccolpi della guerra in Ucraina. I conflitti con operazioni militari provocano l’interruzione delle catene di approvvigionamento delle materie prime, in questo caso il gas russo. Il prezzo delle fonti fossili ha ricevuto un pesante aggravio, dato che il paniere dei prezzi si basa sul gas. Nel 2021 il suo prezzo in Europa è cresciuto del 500%. E’ lo shock energetico più significativo dopo quello generato dall’embargo petrolifero dei Paesi arabi, negli anni ’70 del XX secolo. 

Molti auspicano che la crisi in atto abbia come effetto positivo un’accelerazione della transizione energetica. Un precedente storico ben noto è quello del passaggio dal carbone al petrolio, che ha richiesto alcuni decenni. Le nuove fonti di energia non sostituiscono immediatamente quelle vecchie, ma si affiancano ad esse e progressivamente le rendono obsolete.  
Un aiuto insperato potrà venire dal mercato internazionale. Nonostante le incertezze del settore finanziario, si può prevedere che esso  premierà sempre più le energie rinnovabili, per la semplice ragione che esse rappresentano un investimento non evanescente e non basato sulla mera speculazione a breve. E di solidità il mercato inizia ad avere bisogno. Questo è un fattore cruciale, non bastando il settore pubblico e la spesa degli attori statali a imprimere slancio alla transizione. Tuttavia i mercati risentono del confronto militare in corso. 

Esistono molte ragioni per interessarsi ai fattori strategici indagati dalla geopolitica. 
Nell’ambito della COP 27 l’Unione Europea ha chiesto che i Paesi responsabili della gran parte dell’estrazione e commercializzazione di gas e petrolio non vengano inseriti tra i destinatari di aiuti, pur trovandosi in aree interessate da crisi ambientali. Queste sono infatti il risultato previsto dal cambiamento climatico indotto dall’utilizzo di fonti fossili. E’ una misura che colpisce i Paesi del Golfo, cui si chiede di investire la rendita petrolifera nella transizione verso fonti sostenibili e in interventi di salvaguardia di coste e popolazioni. 
Si tratta di qualcosa di più di una semplice opposizione, perché gli interessi in gioco sono tali da poter far scaturire da essa una linea di faglia che andrebbe a intersecare altre partite strategiche nello scacchiere mediorientale, con possibili riverberazioni anche in quello indopacifico. Quest’ultimo non è, del resto, l’unico conflitto latente che cova a partire dai negoziati COP. 

Gli attori principali cui si rivolgono le ONG per implementare accordi sul clima restano in primo luogo statali, anche all’interno di organismi sovranazionali. Le sorti dell’ecosistema planetario dipendono da decisori e apparati di stati nazionali, perciò appare opportuno percepire in modo adeguato le contese geopolitiche che agitano il pianeta. 
Per avere massima efficacia l’azione per la salvaguardia dell’ecosistema planetario deve essere consapevole delle agende strategiche dei vari attori in un mondo conflittuale. 
Una tragica lezione della storia per l’avvenire è che le grandi rivalità per l’egemonia non si concludono sempre e necessariamente con un vincitore netto: da Tucidide a oggi osserviamo spesso il contemporaneo collasso di potenze rivali. 

L’azione ambientalista, basata su obbiettivi scientifici, tecnici, economici e culturali, persegue una devoluzione di poteri degli stati, che dia sostanza a strutture sovranazionali. Questo potrebbe accadere non solo per comune accordo ma a causa dell’indebolimento progressivo delle compagini nazionali, coinvolte nella macro contesa geopolitica del XXI secolo. 
Per queste e altre ragioni la dimensione geopolitica è da tenere presente con grande attenzione, in ogni dibattito sul clima e sul futuro del pianeta. 

Che fare? 
Verificata la lentezza con cui gli stati recepiscono le indicazioni degli scienziati e degli economisti e l’inerzia con cui queste si incarnano in progetti e trattati internazionali vincolanti, si deve parlare della COP 27 oltre il limite degli attori consueti di riferimento. 
Una valutazione degli esiti raggiunti da 27 Conferenze delle Parti deve partire dal fatto che la questione ambientale e climatica comporta resistenze. L’attrito culturale genera attrito politico e ciò limita la portata delle scelte prese dai decisori istituzionali. 
Per avere un impatto utile, è necessario modificare i paradigmi culturali correnti in larga parte del mondo. Per questo trattare delle risultanze delle COP non può limitarsi ad analisi tecniche tra esperti. Contenuti di tale rilevanza richiedono un’estesa divulgazione pubblica, uno storytelling della sfida planetaria in corso. Perché i decisori statali tendenzialmente rispondono sempre a elettori motivati. 

E’ lecito deprecare le resistenze che derivano da determinati settori, ma non sterilmente. Occorre semmai trasmettere modelli economici pienamente convincenti, alternativi tanto alla follia del consumismo e dell’economia predatoria del XX secolo, quanto alle prospettive di pura decrescita, che si traduce per il vasto pubblico in spettro di indigenza. 
Dalla gente comune dipenderà l’adozione e il successo di ogni strategia di successo nella battaglia per la difesa degli ecosistemi planetari. La frontiera dell’impegno intellettuale può quindi essere rinvenuta in un’opera di pedagogia internazionale, di cui è un esempio la cosiddetta ocean literacy, atta a coinvolgere il più ampio numero di persone sui grandi temi di importanza globale.  

Si deve evitare di cadere nella trappola di disprezzare chi appaia indietro rispetto alla percezione dei problemi e della posta in gioco. Queste vanno comunicate con paziente passione e riusciranno a passare solo se coniugate a una rassicurazione sui futuri assetti socio economici che si potranno costruire. 
Oggi i cambiamenti climatici, insieme al caro energia e alla guerra, risultano dai sondaggi in cima alle preoccupazioni del vasto pubblico, anche in Italia. Manca un coinvolgimento diretto delle persone in azioni politiche e in condotte auto-responsabili, ma in gran parte ciò accade a causa di una comunicazione ancora insufficiente o non convincente. 
Al netto della semplice ignoranza o dei modelli mentali e culturali obsoleti diffusi, occorre generare consapevole adesione a modelli economici alternativi. Questi potranno essere realizzabili soprattutto se rassicuranti, per la maggioranza che, in primo luogo, teme la disoccupazione di massa. 
Per varare e attuare riforme incisive c’è bisogno di popolazioni veramente coinvolte e questo non può ottenersi solo attraverso il timore degli effetti del climate change, ma dando simultaneamente anche la speranza concreta in una nuova economia: verde, circolare, sostenibile. 

Solo un’opinione pubblica convertita alla fiducia nel futuro resisterà alle sirene demagogiche conservatrici, facilmente alimentabili da eventuali contraccolpi della transizione energetica. Il Green New Deal non deve essere dunque abbandonato o usato come slogan retorico, ma riempito di senso: deve diventare progetto e sogno condiviso, impegno di una giovane generazione. 
La COP 28 si terrà nel 2023 a Dubai. E la battaglia che conduce all’approvazione delle future clausole non si giocherà solo tra le mura del resort che ospiterà le delegazioni. Si gioca fin da ora nella propaganda civica che si saprà mettere in campo per educare e mobilitare la pubblica opinione in ogni singolo stato. 
Noi intendiamo portare un contributo in  questo senso. 
 
 

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