Innumerevoli sono gli incendi che hanno divampato sulla linea del tempo, fuochi piccoli e grandi, solo apparentemente innescati da fenomeni politici ed economici indipendenti. La guerra è il più grande affare che esista: prima si produce per la distruzione, poi per la ricostruzione. Un ciclo perenne che somiglia a un istinto, più che a una cospirazione. È natura allora? La nostra ferocia? La nostra passività? Il dormiveglia che rimanda in eterno il sogno dell’armonia?
Chi scrive si è di recente commosso davanti alla silente bellezza della steppa ucraina, agli interminabili campi di grano e girasoli, ai torrenti che attraversano boschi e campagne prima di affluire nel Dniepr, maestosa contorsione destinata alle acque del Mar Nero, e di qui, attraverso il Bosforo, a quelle del Mar Mediterraneo. Chi scrive ha di recente provato rabbia e sconcerto nel vedere uno fra i mille delfini disorientati e uccisi nel Mar Nero dai sonar delle navi, dalle mine marine, dall’avvelenamento seguito alla distruzione della diga di Kakhovka, fatta saltare dai russi nel tentativo di rallentare l’avanzata ucraina a Kherson.
Rabbia e sconcerto per una piccola porzione di terra minata, ancora una volta dall’esercito di Mosca, rappresentativa degli almeno 170.000 Km2 che ormai sono rivestiti di ordigni letali per gli animali, gli uomini e la loro agricoltura. Lungo la linea del fronte, che si estende come un arco per oltre 1000 chilometri, praterie, campagne, colline e corsi d’acqua sono infestati da mezzi militari annichiliti, dai loro frammenti, da sostanze inquinanti di varia natura, fra le quali apparirà presto anche l’uranio. Poco si conosce del rogo che il 22 agosto ha bruciato vaste porzioni della Riserva di Askania - Nova, in particolare dell’area chiamata “Velykyi Chapelskyi Pid”, che ospita un importante zona umida protetta dalla Convenzione Ramsar.
Rabbia e sconcerto, sopra ogni cosa, per gli oltre 500.000 uomini e donne uccisi o feriti in battaglia, siano essi russi o ucraini. I loro corpi orribilmente mutilati, attraversati dal ferro, destinati a un’esistenza dimezzata. Molti fra loro sono giovani. A loro sarebbe spettato, e forse spetterà, al tempo della pace ferma e duratura, riprendere l’altra battaglia, quella lenta ed estenuante per difendere il pianeta dai cambiamenti climatici, dalle mille forme predatorie che l’uomo esercita sull’ambiente.
L’uomo contro la vita, l’uomo contro se stesso. È questa natura?
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