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Epidemie, assedi e natura nella Grecia antica

di Roberto Medda, Ricercatore post-doc presso facoltà di di Storia della filosofia antica dell'Università di Cagliari

Nel mondo greco l’epidemia è legata nel profondo all’assedio. L’immagine archetipica è offerta dalla peste narrata da Tucidide (La guerra del Peloponneso II 49-57). Nel 430 a.C. gli Spartani imperversano nelle campagne dell’Attica e i cittadini di Atene si rinserrano all’interno delle mura cittadine, mentre la flotta contrattacca via mare. L’equilibrio, tragico marchio di un conflitto che sancirà l’inizio della fine di una civiltà, sembra resistere. Il cerino, però, aveva già preso fuoco in Etiopia, la miccia s’era consumata in Egitto, poi in Libia e in Persia, l’innesco è scattato al Pireo – il porto di Atene – e infine la bomba è deflagrata dentro le mura della polis. Nella città sovrappopolata si diffonde, inattesa, la peste. È sufficiente cambiare i nomi dei luoghi e dei morbi e ritroviamo i mali di ogni tempo.

Lo storico ateniese racconta i segni esteriori della piaga, ma anche quelli dell’anima. Chi è mosso dalla pietà o dal mestiere avvicina i malati, ma finisce per infettarsi e soccombere come e più degli altri. Tucidide li cita, ma questi virtuosi sembrano pochi ed estranei al contesto. Il sovvertimento dei tempi di pace, infatti, scopre desideri sopiti, ma mai estirpati dal contratto sociale. Nello stato d’eccezione, quando i cadaveri si seppelliscono alla meglio o vengono ammassati senza decoro e i vivi sembrano avviati allo stesso destino, le persone che prima sembravano timorate si danno alla sopraffazione nei confronti dei più deboli, in un clima generale di disfacimento fisico e spirituale, prossimo all’anarchia. La morale sembra esistere solo quando si può paventare la minaccia della repressione. Tucidide – che subì in prima persona il male – lo registra con lucidità e amarezza.

Una delle più celebri riprese di questa narrazione – a tratti una riscrittura – è quella di Lucrezio (De rerum natura VI 1138-1286). La cronaca dell’infezione viene proiettata in una dimensione che coinvolge l’intera natura umana. Il poeta calca la mano sulla descrizione degli effetti della malattia, diventa truculento. Il sesto libro e probabilmente l’intero poema Sulla natura delle cose terminano così, con le immagini dei roghi dei corpi e della lotta per la sopravvivenza di uomini coperti di sangue. L’intenzione è quella di impressionare il pubblico romano, poco avvezzo alla filosofia e più sensibile ai quadri a tinte fosche, ma, oltre alla reazione emotiva, quale ragionamento è sotteso? Lucrezio è un seguace di Epicuro, ritiene che il mondo sia un’aggregazione di atomi senza alcuna finalità intrinseca. Se le cose stanno così, perché gli esseri umani si affannano con le loro arti e le loro superstizioni? A che serve colonizzare lo spazio, i rapporti con gli altri, il tempo futuro? Come dimostra la peste di Atene, anche durante uno dei momenti più alti della civiltà è bastato un nulla per recidere i fili delle nostre proiezioni in avanti e lasciare l’umanità sola con se stessa e col presente, finendo per trovare una landa desolata e vuota. La filosofia, in particolare quella che parte dalle scuole ellenistiche, ci pone questo interrogativo: è il mondo ad assediare noi o siamo noi ad assediare vanamente il mondo?

Se si torna indietro nel tempo, si scopre che la peste tra gli assedianti è già presente nel mito. L’Iliade si apre, infatti, con l’ira di Achille e con l’oltraggio di Agamennone a Crise, il sacerdote di Apollo. Il dio decide di rispondere all’offesa vibrando le sue frecce avvelenate contro l’accampamento acheo. Le azioni degli uomini hanno incrinato un equilibrio tra il mondo della società e quello degli dèi, che rappresenta l’ordine del cosmo. Il primo atto per affrontare la situazione è convocare un’assemblea, istituire un luogo di confronto, anche aspro, di discorsi e ragionamenti. I medici Podalirio e Macaone, figli dello stesso Asclepio, tacciono, anche se valgono molti uomini coloro che sono capaci di estrarre frecce e applicare rimedi (XI 514-515). Noi oggi diremmo che Omero non cerca soluzioni tecniche, non indica il mezzo in luogo del fine, non suggerisce di curare l’effetto invece che individuare la causa.

Ma no, si tratta solo di miti, non vanno presi sul serio. E allora leggiamo un’ultima favola. Questa è tratta dalla Piccola Iliade, un poema perduto del ciclo troiano, e da altre fonti tardo-antiche, ma ci è nota soprattutto attraverso una tragedia di Sofocle, il Filottete, rappresentata ad Atene nel 409 a.C. Filottete è un arciere valente, grazie alle sue abilità e alle frecce donategli da Eracle, a loro volta cedute da Apollo stesso. L’eroe, però, non arriva neppure a Troia. Durante uno scalo a Tenedo, viene morso da un serpente durante un sacrificio, la ferita si infetta e gli è impossibile proseguire il viaggio. Odisseo non si deve impegnare troppo a convincere gli altri ad abbandonarlo a Lemno. Qui Filottete diventa tutt’uno con la scabra natura dell’isola deserta. Sceglie una grotta come suo rifugio, usa l’arco e le frecce per cacciare gli animali che servono al suo sostentamento, impara a conoscere le erbe mediche che leniscono i dolori lancinanti causati dalla ferita.

Dopo dieci anni l’indovino Eleno rivela agli achei che l’assedio a Ilio non avrebbe avuto successo, finché Filottete non fosse tornato tra loro. Lo stesso Odisseo e il figlio di Achille, Neottòlemo, furono incaricati di convincerlo a imbarcarsi e a ricevere le cure di Macaone. I membri dell’ambasceria non sono scelti a caso: da un lato l’adulto scaltro e opportunista, a cui interessa solo l’utile che si può trarre dalla missione, dall’altro il giovane idealista e inesperto, di sicuro più vicino ai valori del malato abbandonato. Prima di riportare la vittoria, sembra che si voglia dire, è necessario rinsaldare il patto tra le generazioni e riscattare la sofferenza. Il luogo in cui questa difficile mediazione si risolve non può essere la città o il consesso sociale, con le sue mistificazioni, i suoi interessi, i suoi egoismi; è, invece, la natura, che spoglia l’umanità da questi schermi. Qui nasce l’impegno comune.

Forse è bene non soffermarsi troppo a lungo su questi racconti, non hanno nulla da dirci sul presente. Riprendiamo l’assedio, senza pensarci.

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